"Io c'ero, quel giorno di 50 anni fa alla Cascina Spiotta. Tutto precipitò in un minuto e morirono due persone che non avrebbero dovuto morire". Nell'aula della Corte di assise di Alessandria cala un silenzio di gelo.
Lauro Azzolini, 82 anni, un ex delle Brigate Rosse, ha appena sistemato una delle tessere ancora mancanti nel puzzle insanguinato degli anni di piombo: è lui 'mister X', il militante sconosciuto che il 5 giugno 1975, dopo uno scontro a fuoco con i carabinieri, riuscì a far perdere le proprie tracce.
Azzolini interviene a sorpresa nel processo in cui è imputato insieme a Renato Curcio e Mario Moretti, capi storici dell'organizzazione, per l'omicidio di un appuntato dell'Arma, Giovanni D'Alfonso. "Provengo da Reggio Emilia, città medaglia d'oro della Resistenza", esordisce, aggiungendo che un suo cugino partigiano fu ucciso dai nazifascisti. E poi: "va bene, c'ero quel giorno".
I carabinieri erano intervenuti alla Spiotta per liberare l'imprenditore vinicolo Vittorio Vallarino Gancia, rapito dalle Br 24 ore prima. "Fu un inferno - dice Azzolini - che ancora oggi mi costa un tremendo sforzo rivivere". L'ex brigatista si rivolge a Bruno D'Alfonso, figlio dell'appuntato, e gli dice "mi dispiace". Poi parla della seconda persona rimasta sul terreno, la militante Mara Cagol, moglie di Curcio, il quale, nel corso delle indagini, aveva chiesto ai pm di accertare le circostanze della morte.
"L'ultima immagine che ne ho e che non dimenticherò mai - ricorda Azzolini - è di lei ancora viva con entrambe le braccia alzate, disarmata, che urlava di non sparare. Quando seppi che era morta il dolore mi trafisse come una lama".
Per mezzo secolo l'identità del brigatista fuggitivo è rimasta un mistero. Azzolini fu addirittura prosciolto in istruttoria nel 1987. La procura di Torino, che riaprì il caso nel 2021 dopo un esposto di Bruno D'Alfonso, era già convinta di averlo inchiodato e aveva esteso l'accusa di concorso morale a Curcio e Moretti. I due negano e Azzolini, secondo le difese, li scagiona: "Ho sentito dire che noi militanti fummo istruiti e addestrati su come comportarci in quei frangenti, ma non è vero.
Non sapevamo cosa fare".
Alla Spiotta "non doveva morire nessuno" e "fu improvvisato tutto sul momento", compreso il lancio di piccole bombe a mano 'srcm' per aprirsi un varco: "Ci eravamo arresi. Mara, che era ferita, mi disse di tentare ancora la fuga e, al suo cenno, ne tirai una. Raggiunsi il bosco e mi accorsi che lei non era più con me".
Azzolini rivela infine ai giudici di essere l'autore del memoriale anonimo con il resoconto dei fatti della Spiotta, a uso interno delle Br, trovato nel 1977 in un covo a Milano: "Leggetelo voi perché io non ci riesco più".
"Abbiamo colto la sofferenza dell'imputato - commenta Guido Salvini, uno degli avvocati di parte civile - ma il processo deve continuare. Ci sono molti dettagli sulla morte della Cagol ma su ciò che è successo prima, su chi ha sparato a D'Alfonso, si sorvola". Il pm Emilio Gatti, che sostiene l'accusa insieme al collega Ciro Santoriello, parla di "coni d'ombra". "Non dimentichiamo - osserva Sergio Favretto, legale di Bruno D'Alfonso - che le ammissioni arrivano dopo prove inconfutabili come le impronte digitali e le intercettazioni".
La Corte d'assise elimina dal fascicolo qualche atto di indagine e aggiorna il caso ad aprile. Il difensore di Azzolini, Davide Steccanella, non perde lo spirito combattivo: "Delle sei persone presenti alla Spiotta - sottolinea - l'unica che a distanza di mezzo secolo è ancora fra noi, e che può riferire qualcosa, è l'ottantenne Azzolini. Eppure l'accusa ha citato più di cento testimoni. L'ennesimo paradosso di questo processo".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA